Speciali

Antòn Pavlovic Cechov

Secolo XIX
Russia

L'Autore - Antòn Pavlovic Cechov nato in Russia nel 1860 a Taganrog, muore di tisi a Badenweiler nel 1904. Figlio di un piccolo commerciante, si laureò in medicina ma senza quasi esercitare la professione. Nel 1901 sposò l’attrice Ol’ga Knipper.
Autore di moltissimi racconti e novelle (L’angoscia, Lo starnuto, Il Consigliere Segreto, La steppa ecc.) e di fortunati drammi teatrali (Ivanov, 1887; Il Gabbiano, 1896; Zio vania, 1897; Le tre sorelle, 1900; Il Giardino dei Ciliegi, 1903). I suoi personaggi, ritratti con grande acutezza ed humour sottile, sono per lo più figure dal destino mediocre o doloroso, piccoli burocrati o spocchiosi proprietari terrieri. Il racconto Il monaco nero è del 1894.
Una passione tipicamente russa ebbe Cechov per le piante. La piccola tenuta di Melichòvo, in provincia di Mosca fu da lui acquistata ed accuratamente rimboschita, e nel suo giardino di Jalta piantò migliaia di fiori ed arbusti, che curava da vicino e da lontano, seguitando a mandare ordini ai giardinieri anche dall’estero.

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UN GIARDINO ALLA RUSSA

Tutti i colori di questo racconto, a cominciare dal monaco del titolo, sono cupi e tenebrosi. Tetro è l’umore del protagonista Andrèj, tetro e austero il parco della casa dove va, ospite di carissimi amici, a distendersi i nervi; tetro anche il giardino, nonostante che l’Autore lo definisca lieto ed allegro per la presenza di fiori e piante decorative, che il proprietario stesso, Pesòtzkij, definisce “bazzecole”.
Il giardino di cui si parla è in effetti un grande parco, in cui, ad una parte selvatica e boschiva, attraversata da un fiumiciattolo contornato da pini dalle forme conturbanti, si affianca una parte recintata in cui, secondo la consuetudine russa, fiori e piante da ornamento si mescolano a frutteti - meli, ciliegi, peri, ribes, susini, amaraschi, uva spina ecc. - i quali a loro volta sono in parte trattati ad arte topiaria, forse per conferire vaghezza e leggiadria ad una funzione essenzialmente commerciale. Il tutto in un clima meteorologico abbastanza ostile che, ancora a Maggio, vede i padroni combattere assieme ai contadini contro il gelo che, in una notte senza nubi, può distruggere un intero raccolto. In quest’atmosfera di fatica e di lotta contro la natura, si realizza il dramma del protagonista, tormentato dalla visione di questo nero monaco, una specie di suo fantasma personale. Uno sdoppiamento della psiche che, in sintonia con l’ambiente in cui si svolge l’azione, va prendendo via via i colori foschi delle tenebre, mentre intorno scorre la vita quotidiana di una fattoria russa.

IL MONACO NERO (1894) - racconto
Andrèj Vasíljic Kòvrin, libero docente, s’era esaurito e aveva i nervi sossopra. Non faceva nessuna cura, ma un giorno, cosí di sfuggita, mentre bevevano insieme una bottiglia di vino, ne aveva accennato a un amico dottore, e questi gli aveva consigliato di passar la primavera e l’estate in campagna. Per l’appunto in quel torno di tempo, gli giunse una lunga lettera da parte di Tànja Pesòtzkaja, la quale lo invitava a recarsi a Borísovka e a trattenersi là come loro ospite. Sicché egli decise ch’era davvero il caso di partire.
Anzitutto (si era ancora d’aprile), andò a casa sua, alla natia Kovrínka, e qui passò in solitudine tre settimane; poi, attesa la venuta del buon tempo, si diresse, in carrozza, dal suo antico tutore ed educatore Pesòtzkij, frutticultore ben noto in tutta la Russia. Da Kovrínka a Borísovka, dove risiedevano i Pesòtzkij, non correvano piú di settanta miglia, e viaggiare cosí, sulle morbide strade di primavera, in un comodo legno a molle, era un vero piacere.
Aveva, Pesòtzkij, una casa grandissima, con tanto di colonne e di leoni, sui quali s’era scortecciata la stuccatura, e con un servitore in frac all’entrata. Un vetusto parco, tetro e severo, si stendeva per poco meno d’un miglio dalla casa fino al fiume, e qui terminava a picco su una brusca ripa argillosa, sul cui ciglio stavan piantati dei pini con le radici scoperte, simili a zampe villose; dal basso, torva, luccicava l'acqua, vagavano con flebile sibilo le zanzare, e dal paesaggio spirava costantemente un’impressione, come se, mettendoti lí a sedere, dovessi senz’altro scrivere una ballata. In compenso, nei paraggi della casa, nel recinto che la attorniava e nella piantagione di frutti, che insieme coi vivai occupava una trentina di ettari, tutto era lieto e pieno di gioia di vivere anche durante il maltempo. Tanta magnificenza di rose, di gigli, di camelie, tali tulipani dei piú svariati colori, da un fulgido bianco a un nero di pece, tanta ricchezza, insomma, di fiori, quanta ce n’era qui da Pesòtzkij, non s’era mai dato a Kòvrin di vedere altrove. La primavera era ancora soltanto agli inizi, e il maggior tesoro della floricoltura stava ancora nascosto nelle serre, ma già quanto era in fiore lungo i viali e qua e là per le aiole bastava perché, passeggiando pel giardino, ci si sentisse nel regno dei piú soavi colori, particolarmente nell’ore mattutine, quando su ogni petalo scintillava la rugiada.
La parte decorativa dell'azienda frutticola, quel che Pesòtzkij, da parte sua, sprezzantemente definiva come bazzecole, produceva su Kòvrin, nei lontani tempi dell’infanzia, un’impressione fiabesca. Oltretutto, quante cose bizzarre c'erano qui, quante mostruosità procurate a bella posta, e quanti scherzi a spese della natura! C’erano spalliere tutte d’alberi da frutto, un pero che aveva la foggia d’un pioppo piramidale, querce e tigli d’aspetto sferico, un ombrello ricavato da un melo, archi, stemmi, candelabri, e perfino un “1862” d’amarasche: data che ricordava l’anno in cui Pesòtzkij aveva incominciato a occuparsi di frutticoltura. Altrove ti si paravano innanzi dei begli alberetti armoniosi, con certi fusti diritti e robusti come quelli delle palme: e solo quando li avevi esaminati attentamente, potevi ravvisare in codesti alberetti delle piante di ribes o d’uva spina. Ma la cosa che piú di tutte rendeva lieta l'atmosfera del giardino, e dava a questo un aspetto d’animazione, era il perpetuo movimento. Dalle prime ore del mattino fino alla sera, intorno alle piante e ai cespugli, per i viali e fra le aiole, come tante formiche, si affollavano uomini con carriole, sarchielli, annaffiatoi...


Kòvrin giunse dai Pesòtzkij ch’era sera, verso le dieci. Tànja e suo padre, Jegòr Semjònyc, furon trovati da lui in grande agitazione. Il limpido cielo stellato, e il termometro, predicevan gelata sul far del giorno, e intanto il capo-giardiniere, Ivàn Kàrlyc, era partito per la città, e non c’era da ricorrere a nessuno. A cena non si parlò d’altro che della brinata, e fu deciso che Tànja non sarebbe andata a dormire, e all’una dopo mezzanotte avrebbe fatto un giro pel giardino, a vedere se tutto era in ordine, mentre Jegòr Semjònyc si sarebbe alzato alle tre o anche piú presto.
Kòvrin si trattenne con Tànja per tutta la serata, e passata mezzanotte, s’avviò con lei in giardino. Faceva freddo. Intorno alla casa stagnava, acuto, un odor di bruciato. Pel vasto frutteto, che chiamavano “commerciale”, e che rendeva annualmente a Jegòr Semjònyc parecchie migliaia di rubli di guadagno netto, si stendeva a fior di terra un fumo nero, fitto, pungente, che, avviluppando gli alberi, salvava dal gelo appunto quelle migliaia di rubli. Le piante, qui, eran disposte a scacchiera: si susseguivano diritte e regolari, come tante file di soldati, e questa rigida, pedantesca regolarità, unita al fatto che tutte le piante erano della stessa statura e avevan perfettamente identiche le cupole e i fusti, dava al quadro un’uniformità perfino uggiosa. Kòvrin e Tànja s’inoltrarono tra quelle lunghe file, dove bruciavano focheracci di letame, di paglia e di rifiuti d’ogni sorta: e ogni tanto si parava incontro a loro qualcuno dei lavoranti, che girovagavano tra il fumo come ombre. In fiore eran soltanto i ciliegi, gli amaraschi e alcune qualità di meli: ma tutto il frutteto era sommerso dal fumo, e soltanto nei pressi dei vivai Kòvrin poté respirare a pieni polmoni.
- Fin da piccino, qui, mi toccava di starnutar dal fumo, - esclamò egli, stringendosi nelle spalle, - ma non ho ancora potuto mai capire in che modo il fumo valga a salvar dal gelo.
- Il fumo sostituisce le nuvole, quando queste non ci sono... - fu la risposta di Tànja.
- E a che servono, le nuvole?
- Quando è tempo coperto e nuvoloso, non cascano le brinate.
- Oh guarda, guarda!
Era scoppiato a ridere, e le prese la mano. Il largo viso di lei, serio serio e intirizzito, con quelle sottili sopracciglia nere; il bavero alzato del paltò, che le impediva i liberi movimenti del capo, e tutta la sua persona, magra e ben proporzionata, in quest’abito tratto su per la guazza, gl’infondevano un senso di intenerimento.

[...]

Già incominciava ad albeggiare, come spiccava soprattutto alla nettezza con cui andavano stagliandosi nell’aria le volute del fumo e le cupole delle piante. Cantavano gli usignoli, e dai campi giungeva fin qui il richiamo delle quaglie.
- Adesso, però, è tempo d'andare a letto, - esclamò Tànja. - Eppoi fa anche freddo, - e lo prese a braccetto. - Grazie, Andrjúsa, d'esser tornato qui. I nostri conoscenti son gente poco interessante, e, comunque, ne abbiamo ben pochi. Per noi non c’è che il frutteto, il frutteto e il frutteto: nient’altro che questo. Fusto, mezzo fusto, - enumerò ridendo, - melarosa, renetta, innesto a occhio, innesto a canna... Tutta, tutta la vita nostra è stata assorbita da questo frutteto: perfino in sogno io non vedo mai altro che meli e peri! È verissimo che si tratta d'una cosa buona e utile, ma in certi momenti si sente pure il desiderío di qualcosa d’altro, per rompere la monotonia. Mi ricordo che quando voi, un tempo, venivate qui da noi l’estate, o cosí per una scappatina, in casa nostra pareva che tutto diventasse piú fresco e luminoso, come se dal lampadario e dai mobili si fossero tolte le fodere. Io, allora, ero una ragazzetta, eppure lo capivo!

[...]

Tutt’a un tratto [Jegòri Semjònyc] drizzò l'orecchio, e, facendo una faccia tremenda, corse via da una parte e in breve scomparve di là dagli alberi, fra i nugoli di fumo.
- Chi è che ha legato la cavalla a questo melo? - risonò disperata, da lacerare l'anima, la sua voce. - Chi è quel delinquente d’una canaglia che ha avuto il coraggio di legar la cavalla al melo? Ah Dio mio, ah Dio mio! Ogni cosa han guastato, ogni cosa han deturpato, han profanato, hanno insozzato! È andato in rovina, il frutteto! Gli è arrivata la fine, al frutteto! Ah Dio mio!
Quando fu di ritorno qui da Kòvrin, aveva una faccia accasciata, mortificata.
- Di' tu, cosa gli faresti, a questo popolo maledetto? - ruppe in tono piagnucolante, allargando le braccia. - Stjòpka ha trasportato qui, stanotte, il letame, e ha legato la cavalla a un melo! Ci ha attorcigliato quelle redini, vigliacco, ben strette torno torno, dimodoché in tre punti la corteccia è rimasta scalfita. Bell’affare! Io gli parlo, e quello, piantato lí come un passone, indifferente, sbatte le palpebre e basta! Impiccarli sarebbe poco!
Poi, calmatosi, abbracciò Kòvrin e lo baciò sulla gota.
- Che sempre possa andarti cosí bene... sempre cosí bene... - borbottò. - Io son felicissimo che tu sia venuto. Indicibilmente felice... Grazie!
Quindi, sempre con quel passo svelto e con quel viso indaffarato, fece il giro di tutto il frutteto, e mostrò al suo antico pupillo tutte le aranciere, le serre, le tettoie di protezione, e infine i suoi due apiari, che definiva la meraviglia del nostro secolo.
Mentre giravano cosí, sorse il sole, e inondò la piantagione di luce. L’aria si fece tiepida. Presentendo una serena, lieta, lunga giornata, Kòvrin si rese conto che si era ancora, in tutto, al principio di maggio, e che quindi c’era ancora innanzi l’intera estate, altrettanto serena, e lieta, e lunga. E d’improvviso, in fondo al petto, gli s’agitò un giovanile senso d’esultanza, quello stesso che provava negli anni dell’infanzia quando correva per questo giardino. E allora anche lui abbracciò il vecchio, e teneramente lo baciò. Commossi, rientrarono insieme in casa, e si fecero a prendere il tè dalle antiche tazzette di porcellana, con la panna, con quei sostanziosi biscotti di pasta reale, mentre anche queste minuzie rammemoravano a Kòvrin i suoi anni d'infanzia e d’adolescenza. Il piacevolissimo presente, e le impressioni - che lo costellavano - del passato, si fondevano insieme: e all’anima ne veniva un senso di strapienezza, ma di benessere.
Egli aspettò che si svegliasse Tànja, e in compagnia di lei bevve il caffè e fece due passi; poi si ritirò in camera sua, e si mise al lavoro. Con grande concentrazione leggeva, prendeva delle annotazioni, e di rado sollevava lo sguardo per dar una occhiata alle finestre aperte, o ai freschi fiori ancor umidi di rugiada lí nei vasi sulla scrivania: poi daccapo chinava gli occhi sul libro, e aveva l'impressione che dentro di lui ogni minima vena fremesse e vibrasse dalla voluttà.

Dal racconto di Anton Cechov - IL MONACO NERO
in Anton Cechov - Racconti (vol. secondo) - trad. di Agostino Villa - Einaudi 1962 (4.a edizione)

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