Claudio Magris
Secolo XX
Italia
L'Autore - Claudio Magris è nato a Trieste nel 1939.
Dopo avere insegnato a Torino è docente presso l'Università
di Trieste. Collabora col Corriere della Sera e con diversi altri
quotidiani e riviste. Ha pubblicato molte opere di narrativa, tra cui
Illazioni su una sciabola (1984), Un altro mare (1991), i
saggi Dietro le parole (1978), Itaca e oltre (1982),
Danubio (1986), oltre a Stadelman (1988) per il teatro.
Microcosmi è del 1997.
GIARDINO PUBBLICO
NOTA: Il pezzo che segue, ancora di autore italiano, ancora dal secolo
XX, è tratto da uno dei libri più amati degli ultimi anni:
Microcosmi. Come classificarlo? Non narrativa, né saggio, o
quaderno di appunti, ma nello stesso tempo tutte queste cose. I Microcosmi
sono piccoli ambiti di vita, incastonati per lo più in quel mondo
piccolo, ma cosmopolita, europeo e poliglotta che è Trieste. Il
Giardino Pubblico di Trieste, di cui presentoi dei brani, è uno di
questi.
Dalla bella prosa e dal tratteggio che Magris fa dei personaggi e della
vita che vi si svolge, esce una concezione umanissima e naturalistica di
quello che è il vecchio giardino pubblico della nostra infanzia.
Giardino fatto non solo di piante, ma di gente, di animali, di
attività, di riti e consuetudini, di miti e leggende raffigurati
nelle loro erme e nei monumenti dedicati, come quello donato il XX.3.MCMXXI
dal Comitato Milanese Onoriamo l'Esercito.
Buona lettura.
È vietato condurre cani e transitare in bicicletta, è vietato
calpestare le aiole. All'inizio, anche soltanto di una passeggiata in un
giardino, in questo caso del Giardino Pubblico di Trieste, c'è
spesso un'interdizione. L'ingresso principale è custodito da una
barriera di lance in ferro battuto, nere come l'ombra che dilaga in alto
tra i grandi alberi, ippocastani platani e abeti, acqua scura sulla quale
galleggiano rami e foglie e nella quale gli uccelli spariscono e affondano
come sassi.
La folta ombra del Giardino anticipa la sera, che cala un po' prima e non
lo lascia completamente mai, ma resta qua e là rappresa nel
fogliame. Uscendo dal Caffé San Marco e svoltando a sinistra [...]
ci si trova dinnanzi all'entrata principale e al monumento a Domenico
Rossetti, avvolto nel ferraiolo, la mano sul petto. Le tracce dei colombi
scivolate ripetutamente sul viso lo rigano nobilmente di lacrime. Tre donne
massicce e solenni, drappeggiate in pepli, roteano nell'aria intorno al
piedestallo in un'ascesa spiraliforme, porgendo fiaccole, codici di antichi
statuti, rami di quercia. [...]
Come qualche silhouette femminile di una certa età, anche il
monumento a Rossetti migliora visto da dietro, quando lo si è
superato per entrare nel giardino; le parti posteriori resistono un po'
più a lungo all'ingiuria del tempo. Di attraente, nel complesso
statuario, c'è solo il piede di una delle tre donne, che spunta
dietro il basamento. Forse un po' troppo robusto, ma un bel piede seminudo
che scalcia imperioso, araldo di inappellabili chiamate, lapidario come la
scritta tracciata col gesso oltre la soglia del Giardino, tra il divieto di
condurre cani e quello di calpestare aiole: "Elisa ti amo".
Un bambino entra e si avvia, tenendo in mano un piccolo vaso d'acqua in cui
si dibatte un pesce rosso, lungo il viale che conduce al lago, nome che lo
stagno merita, nonostante le sue dimensioni, per il ponte, i cigni, le
minuscole grotte muscose e l'isola tra le ninfee. Il bambino non bada al
piede né alle scritte intimidatorie, forse anche perché, a
giudicare dalle occhiate ansiose che rivolge al suo vaso, ci dev'essere
qualcosa che non va, in quel pesce gonfio e sbatacchiato, e che non gli
permette di fare attenzione ad altro. Ma anche lui, inoltrandosi
nell'ordinato intrico dei viali, entra nella selva di ingiunzioni e
proibizioni che spuntano dovunque fra le begonie, le viole del pensiero e
le margherite.
Nel Giardino si va per svagarsi, prendere il sole o stare all'ombra, a
seconda della stagione, per oziare. [...] Su alcune panchine qualche
pensionato legge il giornale, su altre iniziano le grandi manovre
dell'educazione sentimentale, più in là madri spingono
carrozzelle, ragazzi si inseguono fra viali e cespugli, spariscono in
macchie fitte, si nascondono nel cavo di un albero, tendono agguati in
foreste del grande Nord o in aride savane, si spingono sulle altalene;
oltre il bosco si vede passare l'autobus in via Giulia, ma il bosco
è sterminato. L'altalena si slancia in alto e il mondo cade in un
pozzo senza fondo, viene risucchiato come il sangue dal viso; quando
ritorna indietro non c'è più niente, le cose sono state
soffiate, inghiottite in un vortice. Anche le foglie dell'ippocastano
sfiorate un attimo prima, precipitando in alto, sono sparite, frullate in
un vuoto lucente e lattiginoso. [...]
Il Giardino, subito dopo l'ingresso, è già una foresta scura;
fra i tronchi e i rami la pista di pattinaggio splende bianca, lago gelato
e remoto fra le montagne - i pattini scivolano e la liscia pietra sotto le
rotelle fugge con uno scintillio di neve, il vento soffia in viso e, anche
se la pista circolare è piccola e piana, quel vento che viene da
lontano fa precipitare in una discesa lunga e vertiginosa. Talvolta pare di
cadere in alto, come sull'altalena; l'azzurro oltre le cime degli alberi
è un pulviscolo abbagliante, il terreno sotto i pattini stride come
il ghiaccio di un lago che s'incrina, la pista si dilata, radura chiara nel
bosco.
Alcuni alberi, intorno, sono vecchi; un grande platano straripa in
protuberanze e bitorzoli, mammelle cascanti, escrescenze nodose. La
vecchiaia è un'esuberanza caotica; vita che cresce distruggendo la
sua forma e muore per eccesso. A poche decine di metri dall'entrata, a
sinistra, lungo il viale che costeggia via Marconi, fra un tiglio dalle
foglie a cuore e un giovane olmo, c'è un platano dal tronco aperto e
vuoto. Quella cavità è un buon nascondiglio, durante i giochi
e le scorrerie. L'albero è malato, ma là dentro si sta bene,
protetti dall'infida vastità del mondo. Le pareti interne sono
umide; impiastricciarsi le mani con quel terriccio acquoso, nel buio
dell'albero cavo, è gradevole come maneggiare sabbia e fanghiglia
per costruire castelli o ricavare figure da uno stampo. Fuori stormiscono
le foglie, l'umido sgocciola come saliva lungo le pareti rugose e finisce
in un piccolo avvallamento, lo stillicidio si raccoglie in una pozza
chiara, fonte battesimale nascosto nel bosco; sfiorare con le dita quella
frescura, bagnarsi la fronte e le guance accaldate è un sollievo,
anche qualche uccello s'infila nel tronco cavo e viene a dissetarsi e a
bagnarsi in quella fonte.
Poco più in là, dinanzi al monumento donato il XX.3.MCMXXI
dal Comitato Milanese Onoriamo l'Esercito, una donna con un'aquila in
spalla, una panchina, in bella posizione assolata tra ciuffi di verbene,
merita attenzione in quanto occupata, pressoché ogni mattina durante
la buona stagione, dal signor C. e da sua moglie, inseparabili dal Giardino
non meno delle erme sparse per i suoi viali. la sosta - soprattutto ma non
soltanto domenicale - su quella panchina è un'interruzione del
cammino che, iniziato relativamente di buon'ora, più tardi, verso
mezzogiorno, porta i coniugi C. all'altra estremità del parco, al
Caffé del piazzale, quando è sicuro che sia già
arrivato qualcuno della solita compagnia e dunque ci si può sedere
senza ordinare nulla e accettando il caffé offerto da chi sta
già bevendo il suo, nell'abituale cerchia composta da qualche
avvocato o farmacista e da alcune signore che, nel duello per decidere il
luogo e l'ora di una cena e nei commenti sulle possibili candidate a nozze
col dottor Krainer, un notaio da poco vedovo, investono una sete di dominio
non meno furente di quella di lady Macbeth. [...]
Il giardinaggio è arte di armonizzare, trasformare la natura in
artificio, domare le forze ctonie nella simmetria delle aiole o nel
controllato inselvatichire. Il giardiniere sforbicia le siepi, un tulipano
ben curato spicca fra il verde come il fazzoletto che C. s'infila nel
taschino. Le viole intorno alla panchina sono scure, l'ombra dei cipressi
si allunga su quelle macchie cupe e su chi cammina ai loro bordi, copre con
un drappo quaresimale i fiori e i fili d'erba. Persefone coglie narcisi,
quelle macchie viola sul prato sono già la notte in cui fra poco
sparirà. Ma C. siede elegante e ottuso accanto alla moglie sposata
in età non più giovane, una cosiddetta donna piacente che a
suo tempo, prima del matrimonio, aveva fatto chiacchierare di sé,
tanto che qualche pettegolo si era atteso che lui, con la sua
intraprendenza passionale limitata, da scapolo, a igieniche frequentazioni
di qualche prostituta, fosse impari all'esperta indolenza della bella
consorte. [...] C. contribuisce a rendere rassicurante il giardino, a far
dimenticare i fiori recisi, tutte quelle ombre là intorno. "Che bel
pesciolino rosso", dice benevolo al bambino che gli passa davanti col suo
vaso colmo d'acqua, "proprio carino, bravo", senza badare al pesce quasi
pancia all'aria e al viso del bambino, che non dice niente. [...]
Fra gli animali del Giardino primeggiano i gatti. Sarebbe possibile farne
un'anagrafe attendibile, perché la popolazione felina del Giardino
è stabile, gli intrusi sono rari e ancor più rari i
transfughi. Si possono seguire le generazioni, il disperdersi delle
cucciolate, l'annodarsi di nuove famiglie, i meandri delle endogamie. [...]
Ci sono i ghiri e i ricci, con la loro bonarietà casalinga. Gli
uccelli, tanti uccelli; a sera il loro canto comincia di colpo, tutti
insieme, un vento che si leva tra le foglie in un assordante stormire che
dopo un po' non si avverte più, come il fragore di una cascata.
Qualche gabbiano, risalito dal mare, volteggia spaesato, a volo lento. La
civetta sempre su quel platano cavo, è una vecchia zia, fastidiosa
quando si fa sentire e di cui si sente la mancanza quando tace. Ma
c'è soprattutto il falco. Almeno dicono che ci sia, che viene
giù dal Carso a cercare prede. Dicono anzi che sia un gheppio e lo
hanno visto con la testa grigia e bluastra, il petto giallo macchiettato di
nero e la coda con la punta bianca. Qualcuno lo ha visto fare lo spirito
santo, quasi immobile nell'aria muovendo appena le ali, e Lucia dice che lo
ha visto piombare su un verme grosso e grasso che pareva una biscia, vicino
al lago, farlo a pezzi col rostro e mangiarlo. [...]
Cala verso sera e pare che faccia la tira al ghiro. Il ghiro è
simpatico e perbene, bisogna proteggerlo dai rapaci. Si può lasciare
che metta la testa fuori; il gheppio, che ha la vista così acuta, se
ne accorge e arriva, ma quando lo si vede roteare gli si tira un sasso
prima che metta le grinfie sul ghiro. Verso sera ci si apposta. Il cielo
è di un blu profondo, il tramonto cola lungo i tronchi, resina
sanguinosa, anche sulle ginocchia sbucciate c'è un po' di sangue. Un
pipistrello vola vicinissimo e per un attimo, mentre la sua ombra passa
sotto la lampada che oscilla nel viale, è enorme, si sente la sua
ala sul viso, grande come la notte. La notte è alta e a guardare
lassù vengono le vertigini. Il mondo è una parola ripetuta
fino a perdere ogni senso.
La foresta, intorno, è già nera. Tra le foglie passa un
respiro largo, il bosco è una tana che accoglie e protegge,
inesauribile, e fa sentire che nessuno è più importante e
duraturo della foglia che marcisce o della bacca calpestata; quel frinire
squittire scricchiolare è una legge imparziale e non c'è da
turbarsi se un grillo improvvisamente tace. [...]
Da: Claudio Magris - MICROCOSMI - Ediz. Garzanti 1997/2 - pagg.
229-242 (passim)
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