I FIORI DI TREJA (pag. 295 e segg.)
Eccetto i fiori a Treja si poteva comprare tutto, anche il
petrolio, lo vendeva Pagliericcio. Per comprare la stoffa di un
vestito non sarebbe stato necessario andare a Macerata, come faceva
la zia. I giorni di mercato insieme con i chincaglieri stendevano
anche "i mercanti", quelli che vendevano le stoffe. I mobili non si
compravano, si ordinavano al falegname; chi li voleva bell'e pronti
andava a Macerata e li comprava.
I fiori era impossibile comprarli. Non c'erano i tristi negozi di
fiori pregni di odore cimiteriale. Nei giorni di mercato venivano i
carretti con le piantine da piantare, non con fiori già
recisi. Non credo che andassero a Macerata per un mazzetto di
fiori. Eppure ce n'erano in giro. Non erano mazzi incappucciati nel
cellofan; non erano tenuti a testa in giù come i polli per
le zampe; i gladioli non esistevano, le rose non scoppiavano
solitarie in cima a uno stelo alto e duro, come la fucilata in cima
alla canna; sicché i mazzi non avevano l'obbligo di essere
fucili incartati; avevano la compostezza del cavolfiore; erano un
fiore solo fatto di tanti fiori. Qualche volta stavano infilati in
un collare di carta smerlettato da cui emergevano come teste di
cavalieri secenteschi dalla gorgera a ruota di mulino.
Su quei fiori non c'era stato mai un prezzo. Venivano da orti, da
campi, da vasi sui davanzali delle finestre. Gli astraceli (1)
erano di tutti i colori come le stelle dentro il mio caleidoscopio.
I fiori a Treja erano casalinghi, come le malattie. A volte mi
domando il perché della mia antipatia per i fiori freddi, in
particolare per le orchidee. Per le orchidee più che
antipatia ho repugnanza. Non ne vedo neppure la bellezza e non
capisco perché siano così altamente quotate.
Costretta a scegliere tra un'orchidea e uno spinoso fiore di cardo,
scelgo questo. Se le orchidee ci fossero state a Treja ed Eugenia
mi avesse detto che le aveva inventate il demonio, l'avrei creduto,
come lo credetti per le carte da gioco.
Ma a Treja orchidee non c'erano. E forse perché non
entrarono nella rivelazione dei fiori, non le accetto. A Treja non
c'erano fiori freddi; erano tutti gioia della terra e tepore di
sole; un loro odore l'avevano tutti e se era poco si accoppiavano
con la spighetta, con la cedrina, con la salvia, col rosmarino.
La domenica, quando popolani e contadini mettevano la muta buona,
il vestito della festa. pensavo io, insieme col garofano mettevano
all'occhiello un rametto di lilla (2), o di dittamo (3).
Dittamo era una parola incantata come Bell'Amore (4). Non solo il
nome, ma anche la pianta lo era. Profumato, a forma di cuore
schiacciato, le foglioline grigio-verdi coperte di una peluria
bianca che le schiariva ancora più, stavano tra il velluto e
la peluche. Stropicciandole tra le dita il profumo aumentava. I
fiori violacei a spighe di minuscoli petali coriacei tanto da
assomigliare a semprevivi: forse nel vento suonavano.
Dopo, in nessun giardino, in nessuna terrazza trovai più il
dittamo e intanto la vita passò. «Dov'è ora il
dittamo?» chiesi a un amico che andava a chiudere la sua da
quelle parti. E lui me ne mandò un vaso. Il vaso era di
coccio, ma fatto a mano, intorno all'orlo un collare davvero simile
a quello secentesco; il vasaio, forse ad Appignano, l'aveva
ottenuto mettendo intorno all'orlo un cordone di creta, con
impressioni del pollice l'aveva arricciato.
Eccoli i miei cuoricini di velluto grigio-verde; ecco i fiori
modesti com'erano allora molte ragazze a Treja, non le
Mòsce, ardite come lo sono oggi dappertutto. Ogni rametto di
dittamo finisce col suo rametto di campanuline doppie, salgono su
per lo stelo a coppia; hanno il color rosa violaceo dell'aurora
dietro a un velo di pioggia. Ciuffetti di campanelle infilzati a
gruppetti, l'uno discosto dall'altro. Ognuno è capezzolo
dorato di giovinetta sopra al trasparente blu del sangue.
C'è tutto, ma il profumo è diminuito.
Tutti avevano il dittamo, anche la zia, ma essa oltre al dittamo
tout court aveva anche il dittamo turco (5), senza profumo, che
invece di foglie vellutate le aveva grasse; a quelle foglie gonfie
io ricorrevo per una scottatura, un graffio,un gelone, un
bernoccolo. Toglievo la pellicina e applicavo la foglia grassa e
umida dove avevo male, come un cerotto. Non dissi mai a nessuno che
facevo quell'operazione; per farla aspettavo di non essere vista.
Il dittamo turco, senza profumo, senza velluto, è una pianta
grassa fuori moda. Grassottella, ma non grassona, non ha spine, non
è tozza, non è strampalata, non è pelosa,
è solo una dolce pianta grassa.
I fiori più familiari erano i gerani (6) con le loro foglie
simili a quelle delle malve. Anche alcuni dei loro fiori erano
color malva. Quelli a edera (7) cascavano dai davanzali sui muri
esterni delle case come scialletti dalle spalle dei vasi e io non
capivo perché i fiori dovessero goderseli i passanti e non
chi li coltivava. Quelli rigidi ad alberello avevano le foglie un
po' pelose. Degli uni e degli altri mi interessava l'ombra bruna
che gira a metà delle foglie, e il loro odore amaro.
Capitò anche a me una notte in cui tutto manca e si cerca la
volontà per farla finita, si smania su e giù per
casa, si guarda nel vuoto, si sta con la fronte attaccata ai vetri
della finestra
e intanto si fa giorno.
Uscii sul balcone. Una vecchia pianta abbandonata di geranio ad
alberello mi chiamò con un suo stento fiorellino rosso.
Pareva che non potesse emetterne più: invece una delle sue
poche foglie, quella più in alto, nella sua lieve
concavità, reggeva una goccia d'acqua. Mi chinai sul misero
fiorellino, sulla foglia, sulla goccia d'acqua, su quei rami nodosi
quasi spogli e secchi. Erano intensamente, profondamente belli e
buoni. Da quella pianta mezzo morta per mia trascuratezza venne un
conforto così intimo e delicato come dagli uomini mai
verrà: fui contenta d'essere viva. Tanto debbo al geranio.
I garofani (8) stavano nei vasi sulle finestre tanti quasi quanto i
gerani. La zia non ne aveva, forse non li amava. In cucina
però adoperava i chiodi di garofano. Dicevo come tutti
garofalo, poi dissi garofano; di quell'elle diventata enne non mi
accorsi, un cambiamento che scivolò via come se non ci fosse
stato.
Dittamo, fucsie (9), amorini (10), lillà, gelsomini (11),
pansé (12), ecco i fiori coi quali ebbi dimestichezza;
stavano in vasi di terracotta fuori delle finestre, su un largo
piano sporgente di legno; un affollato giardinetto pensile.
In principio tutti i fiori erano «fofò». Non
ricordo d'aver detto «pappa», ma fofò sì,
tiravo su l'odore con tutta la forza dei polmoni; ai fofò
correvo incontro. Qualcuno diceva «fofò» e io
correvo come un cane al suo fischio.
Fiori colti e tenuti nell'acqua per ornamento da noi non c'erano. I
vasi che avrebbero dovuto accoglierli esistevano per la loro
personale bellezza. Due azzurri rappresentavano una mano che
reggeva un cono rovesciato, la mano aveva anche l'anello al dito.
Altri due, di opale bianco-azzurra erano nello studio dello zio,
forse per questo li veneravo; credo che non abbiano mai avuto
contatto con un fiore. Nello studio c'era solo la rosa di Gerico
(13), scheletro di manina rattrapita. Ogni tanto chiedevo di
poterla toccare. Mi attirava e mi faceva ribrezzo.
In quella casa c'erano dei fatti che non vedevo mai, eppure
dovevano succedere. Alle finestre c'erano sempre i soliti vasi coi
soliti gerani, la solita fucsia, la solita lilla, i soliti capsen,
i soliti dittami, quello peloso e odoroso e quello liscio e
inodore. Fucsia, lilla e gelsomino, erano in grandi vasi, gli altri
nei comuni. Queste piante vivevano bene, non si ammalavano mai,
fiorivano nel loro tempo, alcune andavano in letargo nell'inverno e
si svegliavano in primavera. Ogni anno così, ma io non vidi
mai cambiare la terra, non vidi mai potare una pianta, sistemarla,
curarla, eppure doveva succedere.
Il gelsomino era solo profumo, la lilla era profumo, colore e
delicata ruvidezza. «Lilla» non lillà. I
lillà li conobbi quando non eravamo più nella Casa
del Beneficio, e a Treja si chiamavano lagrime di Giobbe. La lilla
nostra era la cedrina, le sue foglie strette lunghe, appuntite,
erano dolcissime raspe, l'odore fresco non stancava mai, i fiori
minuscoli come moscerini erano colore della mia infanzia: la mia
infanzia raccolta in quel vestitino di voile lilla con la cuffia a
monachina che «venne da Roma».
Non c'erano le viole del pensiero, c'erano le
«pansé». Quell'é bisognava
pronunciarla larga e lunga. Le piantine venivano a carretti nei
giorni di mercato, avevano già uno o due fiori per campione
sicché si poteva scegliere, non era un'adozione ad occhi
chiusi; cen'erano di scurissime, raso vellutato tanto viola che si
avvicinava al nero, io preferivo queste; forse anche la zia
perché ne comperava più di scure che di chiare.
Quelle che avevano due foglie gialle e due viola mi piacevano meno,
mi sembravano petulanti; quando da qualcuno sentii dire «le
vecchiette» ebbi il loro vero nome. Ogni piantina veniva
fuori da un fagottello fasciato con grandi foglie lucide come se
fossero bagnate, invece erano loro ad essere così. Dentro al
fagottello c'era la zolla di terra umida nella quale la
pensée aveva messo radice. Dall'involucro uscivano le foglie
e i fiori, proprio come i bambini emergevano dalle fasce. Quel
carretto era un tappeto di faccette che mi guardavano negli occhi.
Le pensées non erano come gli altri fiori che guardavano il
cielo o la terra, quelle guardavano in faccia come noi tra noi e ce
n'erano di serie e pensose, di argute e birichine, di vecchiette
stridule.
Intorno a quel carretto le donne facevano la confusione che fanno
quando sono in tante a scegliere. L'uomo, zitto, prendeva i soldi e
ogni tanto riordinava. La zia sceglieva quelle che avevano
più bocciolini chiusi e le metteva nei vasi. Non c'era
bisogno di aspettare che attecchissero perché avevano
già attecchito nella terra che era venuta con loro. I
bocciolini stavano leggermente chini aspettando di aprirsi per
guardare in faccia la gente, difatti si rizzavano via via che si
aprivano. «Le viole del pensiero» diceva il libro di
scuola. Quelle scure erano davvero pensierose.
Gli amorini e i capsen (15) li seminava la zia e quelli nascevano
in casa. I semi dei capsen erano grossi come ceci, quelli degli
amorini più piccoli del seme dei bachi, una polverina di
semi scuri.
Credo che nessuno semini più nei vasi l'amorino. I suoi
fiori verdognoli con qualcosa di giallo a spiga grossa e appuntita,
si distinguevano appena dal fogliame. Bisognava guardarli bene da
vicino e allora si vedeva che quelle spighe verdognole erano
trapuntate di minutissime margheritine meno grandi di una capocchia
di spillo; il giallognolo veniva dal centro delle margheritine, un
punto giallo.
Dicevano che la violetta mammola era il simbolo dell'umiltà.
A me parevano civettuole come le vecchie signore che non volendo
adottare il nero fanno un compromesso col viola. L'amorino era
umile semza ipocriti nascondimenti; solo un poco più tenero
del verde delle foglie, si confondeva con queste; il suo profumo
non si sentiva di lontano, non era morbido come quello delle
violette, era ingenuo, poteva essere l'odore degli angeli. E se
anche il fiore non era bello come a me pareva, sul nome non ci
poteva essere dubbio: il nome era una bellezza in se stesso. Per
chiamarsi amorino, amorino doveva essere.
Nasturzio; che fiore era il nasturzio? Dovevo andare a Torino per
saperlo. In un giorno di tutti i Santi, lassù io lo seppi.
Mai avevo pensato che fosse il capsen coltivato dalla zia con quel
sentore d'esotico come profumo e come nome. Io non sapevo
pronunciarla bene quella parola; la zia scivolava su quel suono
come un soffio. Era una parola che s'era portata via da una delle
sue terre ignote; quel nome straniero era solo una parola
dialettale e voleva dire cappuccino perché il fiore ha il
becco che aveva il cappuccio dei frati quando i frati erano frati.
Un nome, quelle terre dove lei aveva vissuto dovevano pure averlo.
Non lo seppi mai. Gli zii erano apparizioni emergenti da uno sfondo
di nebbia impenetrabile.
Le foglie dei capsen che diventavano d'argento vivo immerse
nell'acqua, era un mio divertimento; giocavo col miracolo. Per la
mia ignoranza esilarante dovetti andare a Torino per sapere due
cose in una: che i capsen si chiamano nasturzi e che i nasturzi
sono i capsen. Quando vedo vicino quel tale rosso e quel tale
giallo che si amalgamano in quel fiore, vedo i capsen, vedo i
nasturzi anche se sono solo macchia.
Alle finestre di conti e di marchesi non ci potevano essere vasi di
fiori; i loro palazzi erano obbligati al sussiego e non c'è
sussiego con la maggiorana alla finestra. Se dentro la fucsia ci
fosse, non lo so. Il conte Nicolò Grimaldi, così
solennemente scapolo, sicuramente non l'aveva.
La fucsia era un fiore che guardava per terra; non avrebbe mai
potuto guardare in faccia né il cielo, né gli uomini,
era come la zia: chiusa in se stessa, tirata giù dal suo
peso; nonostante il peso la zia però non fletteva neppure le
ginocchia.
Se la fucsia non fosse stata in un vaso e fuori dalla finestra, ma
per terra, come stavo io, sarebbe stata sempre più alta di
me, un alberello con tante campanelle pendule, ognuna con tanti
batocchini con la testina d'oro; un fiocchetto di batocchini. La
campanella era fatta di tanti petali paonazzi stretti tra di loro e
sopra sepali bianchi e carnosi a spicchi, provenienti da un lungo e
stretto calice. La campanella, una sottanina fatta di tanti teletti
stretti uno contro l'altro, i batocchini tanti piedini con le
scarpine dorate. Mentre nelle fucsie comuni sepali e petali erano
di colore uguale, in quella della zia calice e sepali bianchi,
petali rosso-viola. Tutto eccezionale, quello che aveva lei.
Ogni tanto lungo la vita ne ho chiesto. «No, mai viste
così.» Non molto tempo fa, in una stretta viuzza di
Arezzo, a una finestra, ne vidi una. Ero in automobile; feci appena
in tempo a salutarla.
Le altre fucsie tutte d'un colore; calici, sepali e petali insieme
facevano monsignore, quella della zia con quel bianco sopra e
paonazzo sotto era fiore fatto d'ombra e di luce. Se vedessi me
d'allora come vedo l'alberello disordinato della fucsia con quei
fiori a goccia sotto il verde delle foglie, forse saprei qualcosa
di me.
In un vaso grande come quello della lilla, del gelsomino, della
fucsia, c'era anche la margherita con i suoi fiori bianchi attorno
al bottone d'oro, che guardavano tutti il cielo. Quella è la
più generosa tra le piante; dà fiori più che
non abbia foglie per respirare, ma appunto perché è
generosa non è apprezzata; desse meno sarebbe preziosa;
invece è stupida.
Arrivò un vaso di tuberose (16), già bell'e fiorito;
un profumo intenso che veniva fuori da una fiammella gialla nella
gola del fiore; stette poco e sparve. Arrivò pure una grossa
pianta di gardenie (17), stava in un vaso grande come quello della
lilla, era tutta fiorita anche lei, ma quell'odore mi fu
insopportabile; diventava puzzo e mi allontanava. Dicevano in paese
che non si dovevano odorare i fiori da offrire alla Madonna; puri
dovevano essere per darglieli. Se in casa ci fosse stata una
Madonna a cui offrire fiori, io le avrei potuto offrire solo le
gardenie, gli altri glieli avrei tutti deflorati.
Un giorno entrò in casa una pianta che non aveva né
rami, né foglie; una pianta che pareva di carne verde e
aveva un nome fantastico «philodendro» (18); era
scritto «phi», ma si leggeva «fi»; non feci
in tempo a guardarla, forse entrò e morì, feci in
tempo solo ad afferrarne il nome. Poco dopo ne arrivò una
che feci in tempo a guardare perché restò, non
scomparve subito. Era un bastone di pasta verde che fioriva ogni
non so quanti anni. Ma questa aveva già una protuberanza in
cima da cui doveva scoppiare il fiore aspettato chissà da
quanto tempo. Anch'io aspettai, aspettai, per giorni eterni. Ed
ecco lassù, attaccato a quel suo tronco scanalato e carnoso
dove invece di foglie c'erano gruppetti di spine, ecco lassù
il fiore solo a tanti calici, tanti calici uno dentro l'altro che
facevano un fiore solo; tolto l'azzurro, c'erano tutti i colori
sfumati tra di loro come se uno colasse sull'altro; era stagliato,
rigido, quasi carnoso, un fiore che sbocciava ogni tanti anni era
già un fiore vecchio. Ogni tanti anni, poteva voler dire
ogni cento anni. Non era una pianta nostrana, era esotica. M'era
piaciuta quella parola e la ripetevo «è
esotica». Quella pianta che mi estasiava per il suo essere
esotica, per il suo fiore centenario venuto a sbocciare proprio in
casa nostra, mi estasiava anche per il suo nome scritto su una
tavoletta attaccata con fil di ferro alla pianta: Pelungatus
philamentum (19). Me lo facevano ripetere questo nome per
ridere della gravità con cui scandivo le due maccaroniche
parole.
Ma dove se le procurava la zia queste piante? Io me le vedevo in
casa, piante rare che nessuno aveva e non vidi mai di dove
sorgessero. Se le avesse prese a Macerata me ne sarei accorta.
Per un po' di tempo ci fu una pianta grassa, non aveva tavoletta
col nome, nessuno la chiamò. Era un ciuffo di spade verdi
orlate di giallo (20). Stava sul pavimento col suo vaso, come stavo
io sullo sgabello da piedi in casa della signora Rosina e delle
Cervigni.
Per un periodo lungo ci fu anche la miseria, ma quella non stava
fuori delle finestre, era sparsa per casa, pianta decorativa, non
la vidi mai fiorita. I vasi erano semicoppe appuntite di coccio,
sbalzate, smerlettate, traforate, applicate alle pareti o anche
coppe intere pendenti dall'alto come lampadari. veramente pendevano
solo davanti alle finestre, nell'apertura dei due festoni delle
tende. dalle une e dalle altre traboccavano cascate di miseria. La
forma delle foglie era uguale, il colore no. C'era la miseria verde
(21) che non m'interessava affatto; non capivo perché la zia
la tenesse; ma quell'altra no, era una miseria stupenda, sarebbe
stata bene anche nel palazzo del conte Grimaldi. E chissà
che non ci fosse. La facevano parere di metallo i colori tirati
sulle foglie a pennellate separate (22) come le pitture della
piccola basilica di Macerata dove distinguevo tutti i pezzetti di
colori, ma se socchiudevo gli occhi la scena era tutta unita.. Per
la miseria non occorreva socchiudere gli occhi, i colori stavano
bene come stavano, fondamentale l'amaranto; su quesyo, striature
verdi, rossicce, ramate; il colore del carciofo ricorda questa
miseria. Probabilmente la miseria avrà infestato il paese
perché la zia se ne disfece completamente.
[
]
Un po' più a lungo della miseria durò un'altra pianta
ornamentale. Dai vasi si allargava un bosco di gigantesche foglie
ovali a punta (23), percorse da tante nervature longitudinali; in
mezzo quella grossa che pareva la prosecuzione del gambo della
foglia. Un velo azzurrognolo sul verde di quelle enormi foglie di
cui una poteva coprire la tavolozza di mio zio restandone fuori la
punta. Avrei avuto il tempo di fare amicizia con quel bosco di
foglie, ma non ce la feci. Scomparve e basta.
Mentre fu un'emozione mai sopita la stella alpina (24). Con tanto
sorriso, con tanto riguardo lo zio la tirò fuori da un
foglietto piegato in due. Lui la chiamava edelweiss. Una scoperta
piuttosto sgradevole. Quel fiore con la forma di frutto di mare,
ricoperto di peluria come certi schifosi insetti, col colore di
nessun colore, perché neppure bianca era, mi
disgustò. Poi quando sentivo di gente che attratta dal
fascino di quel fiore, piombava nei precipizi per coglierlo, mi
parvero persone destinate a cogliere la morte. Lasciato solo, in
cima al precipizio, l'edelweiss poteva anche essere un fiore.
Se invece di tanti altri fiori, avessi conosciuto prima la
violacciocca (25), tutta colorata, così semplicemente
profumata nel suo grigiastro, disordinato cespuglio peloso, mi
sarebbe bastata lei sola; con la violacciocca Pasqua è
sempre vicina.
NOTE di Larkie:
(1) - Astraceli:
Aster sp.
(2) - Lilla (non Lillà):
Lippia citriodora o
Cedrina, o
Erba Luigia
(3) - Dittamo:
Dictamnus albus o Frassinella
(4) - Bell'Amore: non identif. (forse
Aquilegia sp.?, in
ital. Amor Perfetto)
(5) - Dittamo turco: non identif.
(6) - Gerani:
Pelargonium zonale
(7) - Gerani a edera:
Pelargonium peltatum
(8) - Garofani:
Dianthus sp.
(9) - Fucsie:
Fuchsia magellanica
(10) - Amorini: non identif.
(11) - Gelsomini:
Jasminum sp.
(12) - Pansé: Viola tricolor o Viola del
Pensiero
(13) - Rosa di Gerico: pianta che conosco ma non identifico. Si
conserva secca su un piattino o vassoio. Sta arricciata e chiusa su
se stessa; mettendo acqua nel fondo del piattino si apre lentamente
come se fosse ancora viva.
(14) - Lillà:
Syringa sp.
(15) - Capsen:
Tropaeolum majus o Nasturzio (in franc.
Capucine; in dial. ferrarese Capusèn)
(16) - Tuberosa:
Polianthes tuberosa
(17) - Gardenie:
Gardenia jasminoides
(18) - Philodendro: forse si tratta di un errore di Dolores. Le
275 specie appartenenti al genere Philodendron sono tutte dotate di
foglie e di rami. La memoria questa volta ha fatto cilecca.
(19) - Probabilmente deformazione maccheronica di un nome
difficile. La terminazione
-gatus potrebbe essere in
realtà
-cactus. Dalla descrizione la pianta
assomiglia ad un
Cereus jamacaru.
(20) - Spade verdi orlate di giallo. Forse Agave americana
"Marginata"
(21) - Miseria verde:
Tradescantia blossfeldiana?
(22) - Colori ... a pennellate separate: forse Zebrina
pendula "Quadricolor", le cui foglie hanno strisce irregolari
rosa, verde, crema e argento.
(23) - Foglie ovali a punta: forse
Aspidistra elatior.
(23) - Stella alpina:
Leontopodium alpinum
(24) - Violacciocca:
Matthiola incana