Speciali

Dolores Prato

Secolo XX
ITALIA

L'Autore - Dolores Prato (Roma 1892 - Anzio 1983). Vissuta dai 5 ai 18 anni a Treia. (MC), prima in casa di uno zio e poi nell'Eeducandato Salesiano della Visitazione, si laureò nel 1919 alla Facoltà di Magistero di Roma. Nel 1948 iniziaò una collaborazione a «Paese Sera» e pubblicò il suo primo romanzo, Nel paese delle campane. Nel 1980 Einaudi fece uscire Giù la piazza non c'è nessuno e fu subito un caso letterario. Ma il testo stampato era solo un terzo del lungo racconto autobiografico che la Prato aveva composto, e l'attenzione della critica si concentrò più sull'insolita circostanza di un'esordiente quasi novantenne che sulla straordinaria tempra narrativa e stilistica del libro. (dal risvolto di copertina)

*      *      *

IL LUNGO BRANO CHE SEGUE È TRATTO DAL ROMANZO AUTOBIOGRAFICO GIÙ LA PIAZZA NON C'È NESSUNO - (1.a edizione integrale a cura di Giorgio Zampa - Mondadori, 1997)

Il testo - di 740 pagg - fu composto in tempi piuttosto brevi sulla scorta di appunti raccolti durante decenni, e dettato direttamente ad una dattilografa quando l'autrice aveva circa 88 anni. Presentati in un linguaggio forte, personalissimo e dalle frequenti scivolate dialettali attinte sia dalla parlata Treiese che da quella del ferrarese, si svolgono i ricordi d'infanzia dell'autrice, i suoi rimorsi e le sue recriminazioni, inframezzati da lunghe descrizioni del paese di Treia, dei suoi abitanti, e di tutte quelle cose, modi di dire, oggetti, piante, animali, abitudini che costellano il fantasticato mondo personale di un bambino.
SARO' GRATO A CHI MI AIUTERA' A RICONOSCERE QUELLE PIANTE CHE NELLE NOTE IN CALCE RISULTANO NON IDENTIFICATE. GRAZIE.

*      *      *

I FIORI DI TREJA (pag. 295 e segg.)

Eccetto i fiori a Treja si poteva comprare tutto, anche il petrolio, lo vendeva Pagliericcio. Per comprare la stoffa di un vestito non sarebbe stato necessario andare a Macerata, come faceva la zia. I giorni di mercato insieme con i chincaglieri stendevano anche "i mercanti", quelli che vendevano le stoffe. I mobili non si compravano, si ordinavano al falegname; chi li voleva bell'e pronti andava a Macerata e li comprava.

I fiori era impossibile comprarli. Non c'erano i tristi negozi di fiori pregni di odore cimiteriale. Nei giorni di mercato venivano i carretti con le piantine da piantare, non con fiori già recisi. Non credo che andassero a Macerata per un mazzetto di fiori. Eppure ce n'erano in giro. Non erano mazzi incappucciati nel cellofan; non erano tenuti a testa in giù come i polli per le zampe; i gladioli non esistevano, le rose non scoppiavano solitarie in cima a uno stelo alto e duro, come la fucilata in cima alla canna; sicché i mazzi non avevano l'obbligo di essere fucili incartati; avevano la compostezza del cavolfiore; erano un fiore solo fatto di tanti fiori. Qualche volta stavano infilati in un collare di carta smerlettato da cui emergevano come teste di cavalieri secenteschi dalla gorgera a ruota di mulino.

Su quei fiori non c'era stato mai un prezzo. Venivano da orti, da campi, da vasi sui davanzali delle finestre. Gli astraceli (1) erano di tutti i colori come le stelle dentro il mio caleidoscopio.

I fiori a Treja erano casalinghi, come le malattie. A volte mi domando il perché della mia antipatia per i fiori freddi, in particolare per le orchidee. Per le orchidee più che antipatia ho repugnanza. Non ne vedo neppure la bellezza e non capisco perché siano così altamente quotate. Costretta a scegliere tra un'orchidea e uno spinoso fiore di cardo, scelgo questo. Se le orchidee ci fossero state a Treja ed Eugenia mi avesse detto che le aveva inventate il demonio, l'avrei creduto, come lo credetti per le carte da gioco.

Ma a Treja orchidee non c'erano. E forse perché non entrarono nella rivelazione dei fiori, non le accetto. A Treja non c'erano fiori freddi; erano tutti gioia della terra e tepore di sole; un loro odore l'avevano tutti e se era poco si accoppiavano con la spighetta, con la cedrina, con la salvia, col rosmarino.

La domenica, quando popolani e contadini mettevano la muta buona, il vestito della festa. pensavo io, insieme col garofano mettevano all'occhiello un rametto di lilla (2), o di dittamo (3).

Dittamo era una parola incantata come Bell'Amore (4). Non solo il nome, ma anche la pianta lo era. Profumato, a forma di cuore schiacciato, le foglioline grigio-verdi coperte di una peluria bianca che le schiariva ancora più, stavano tra il velluto e la peluche. Stropicciandole tra le dita il profumo aumentava. I fiori violacei a spighe di minuscoli petali coriacei tanto da assomigliare a semprevivi: forse nel vento suonavano.

Dopo, in nessun giardino, in nessuna terrazza trovai più il dittamo e intanto la vita passò. «Dov'è ora il dittamo?» chiesi a un amico che andava a chiudere la sua da quelle parti. E lui me ne mandò un vaso. Il vaso era di coccio, ma fatto a mano, intorno all'orlo un collare davvero simile a quello secentesco; il vasaio, forse ad Appignano, l'aveva ottenuto mettendo intorno all'orlo un cordone di creta, con impressioni del pollice l'aveva arricciato.

Eccoli i miei cuoricini di velluto grigio-verde; ecco i fiori modesti com'erano allora molte ragazze a Treja, non le Mòsce, ardite come lo sono oggi dappertutto. Ogni rametto di dittamo finisce col suo rametto di campanuline doppie, salgono su per lo stelo a coppia; hanno il color rosa violaceo dell'aurora dietro a un velo di pioggia. Ciuffetti di campanelle infilzati a gruppetti, l'uno discosto dall'altro. Ognuno è capezzolo dorato di giovinetta sopra al trasparente blu del sangue. C'è tutto, ma il profumo è diminuito.

Tutti avevano il dittamo, anche la zia, ma essa oltre al dittamo tout court aveva anche il dittamo turco (5), senza profumo, che invece di foglie vellutate le aveva grasse; a quelle foglie gonfie io ricorrevo per una scottatura, un graffio,un gelone, un bernoccolo. Toglievo la pellicina e applicavo la foglia grassa e umida dove avevo male, come un cerotto. Non dissi mai a nessuno che facevo quell'operazione; per farla aspettavo di non essere vista.

Il dittamo turco, senza profumo, senza velluto, è una pianta grassa fuori moda. Grassottella, ma non grassona, non ha spine, non è tozza, non è strampalata, non è pelosa, è solo una dolce pianta grassa.

I fiori più familiari erano i gerani (6) con le loro foglie simili a quelle delle malve. Anche alcuni dei loro fiori erano color malva. Quelli a edera (7) cascavano dai davanzali sui muri esterni delle case come scialletti dalle spalle dei vasi e io non capivo perché i fiori dovessero goderseli i passanti e non chi li coltivava. Quelli rigidi ad alberello avevano le foglie un po' pelose. Degli uni e degli altri mi interessava l'ombra bruna che gira a metà delle foglie, e il loro odore amaro.

Capitò anche a me una notte in cui tutto manca e si cerca la volontà per farla finita, si smania su e giù per casa, si guarda nel vuoto, si sta con la fronte attaccata ai vetri della finestra… e intanto si fa giorno.

Uscii sul balcone. Una vecchia pianta abbandonata di geranio ad alberello mi chiamò con un suo stento fiorellino rosso. Pareva che non potesse emetterne più: invece una delle sue poche foglie, quella più in alto, nella sua lieve concavità, reggeva una goccia d'acqua. Mi chinai sul misero fiorellino, sulla foglia, sulla goccia d'acqua, su quei rami nodosi quasi spogli e secchi. Erano intensamente, profondamente belli e buoni. Da quella pianta mezzo morta per mia trascuratezza venne un conforto così intimo e delicato come dagli uomini mai verrà: fui contenta d'essere viva. Tanto debbo al geranio.

I garofani (8) stavano nei vasi sulle finestre tanti quasi quanto i gerani. La zia non ne aveva, forse non li amava. In cucina però adoperava i chiodi di garofano. Dicevo come tutti garofalo, poi dissi garofano; di quell'elle diventata enne non mi accorsi, un cambiamento che scivolò via come se non ci fosse stato.

Dittamo, fucsie (9), amorini (10), lillà, gelsomini (11), pansé (12), ecco i fiori coi quali ebbi dimestichezza; stavano in vasi di terracotta fuori delle finestre, su un largo piano sporgente di legno; un affollato giardinetto pensile.

In principio tutti i fiori erano «fofò». Non ricordo d'aver detto «pappa», ma fofò sì, tiravo su l'odore con tutta la forza dei polmoni; ai fofò correvo incontro. Qualcuno diceva «fofò» e io correvo come un cane al suo fischio.

Fiori colti e tenuti nell'acqua per ornamento da noi non c'erano. I vasi che avrebbero dovuto accoglierli esistevano per la loro personale bellezza. Due azzurri rappresentavano una mano che reggeva un cono rovesciato, la mano aveva anche l'anello al dito. Altri due, di opale bianco-azzurra erano nello studio dello zio, forse per questo li veneravo; credo che non abbiano mai avuto contatto con un fiore. Nello studio c'era solo la rosa di Gerico (13), scheletro di manina rattrapita. Ogni tanto chiedevo di poterla toccare. Mi attirava e mi faceva ribrezzo.

In quella casa c'erano dei fatti che non vedevo mai, eppure dovevano succedere. Alle finestre c'erano sempre i soliti vasi coi soliti gerani, la solita fucsia, la solita lilla, i soliti capsen, i soliti dittami, quello peloso e odoroso e quello liscio e inodore. Fucsia, lilla e gelsomino, erano in grandi vasi, gli altri nei comuni. Queste piante vivevano bene, non si ammalavano mai, fiorivano nel loro tempo, alcune andavano in letargo nell'inverno e si svegliavano in primavera. Ogni anno così, ma io non vidi mai cambiare la terra, non vidi mai potare una pianta, sistemarla, curarla, eppure doveva succedere.

Il gelsomino era solo profumo, la lilla era profumo, colore e delicata ruvidezza. «Lilla» non lillà. I lillà li conobbi quando non eravamo più nella Casa del Beneficio, e a Treja si chiamavano lagrime di Giobbe. La lilla nostra era la cedrina, le sue foglie strette lunghe, appuntite, erano dolcissime raspe, l'odore fresco non stancava mai, i fiori minuscoli come moscerini erano colore della mia infanzia: la mia infanzia raccolta in quel vestitino di voile lilla con la cuffia a monachina che «venne da Roma».

Non c'erano le viole del pensiero, c'erano le «pansé». Quell'é bisognava pronunciarla larga e lunga. Le piantine venivano a carretti nei giorni di mercato, avevano già uno o due fiori per campione sicché si poteva scegliere, non era un'adozione ad occhi chiusi; cen'erano di scurissime, raso vellutato tanto viola che si avvicinava al nero, io preferivo queste; forse anche la zia perché ne comperava più di scure che di chiare. Quelle che avevano due foglie gialle e due viola mi piacevano meno, mi sembravano petulanti; quando da qualcuno sentii dire «le vecchiette» ebbi il loro vero nome. Ogni piantina veniva fuori da un fagottello fasciato con grandi foglie lucide come se fossero bagnate, invece erano loro ad essere così. Dentro al fagottello c'era la zolla di terra umida nella quale la pensée aveva messo radice. Dall'involucro uscivano le foglie e i fiori, proprio come i bambini emergevano dalle fasce. Quel carretto era un tappeto di faccette che mi guardavano negli occhi. Le pensées non erano come gli altri fiori che guardavano il cielo o la terra, quelle guardavano in faccia come noi tra noi e ce n'erano di serie e pensose, di argute e birichine, di vecchiette stridule.

Intorno a quel carretto le donne facevano la confusione che fanno quando sono in tante a scegliere. L'uomo, zitto, prendeva i soldi e ogni tanto riordinava. La zia sceglieva quelle che avevano più bocciolini chiusi e le metteva nei vasi. Non c'era bisogno di aspettare che attecchissero perché avevano già attecchito nella terra che era venuta con loro. I bocciolini stavano leggermente chini aspettando di aprirsi per guardare in faccia la gente, difatti si rizzavano via via che si aprivano. «Le viole del pensiero» diceva il libro di scuola. Quelle scure erano davvero pensierose.

Gli amorini e i capsen (15) li seminava la zia e quelli nascevano in casa. I semi dei capsen erano grossi come ceci, quelli degli amorini più piccoli del seme dei bachi, una polverina di semi scuri.

Credo che nessuno semini più nei vasi l'amorino. I suoi fiori verdognoli con qualcosa di giallo a spiga grossa e appuntita, si distinguevano appena dal fogliame. Bisognava guardarli bene da vicino e allora si vedeva che quelle spighe verdognole erano trapuntate di minutissime margheritine meno grandi di una capocchia di spillo; il giallognolo veniva dal centro delle margheritine, un punto giallo.

Dicevano che la violetta mammola era il simbolo dell'umiltà. A me parevano civettuole come le vecchie signore che non volendo adottare il nero fanno un compromesso col viola. L'amorino era umile semza ipocriti nascondimenti; solo un poco più tenero del verde delle foglie, si confondeva con queste; il suo profumo non si sentiva di lontano, non era morbido come quello delle violette, era ingenuo, poteva essere l'odore degli angeli. E se anche il fiore non era bello come a me pareva, sul nome non ci poteva essere dubbio: il nome era una bellezza in se stesso. Per chiamarsi amorino, amorino doveva essere.

Nasturzio; che fiore era il nasturzio? Dovevo andare a Torino per saperlo. In un giorno di tutti i Santi, lassù io lo seppi. Mai avevo pensato che fosse il capsen coltivato dalla zia con quel sentore d'esotico come profumo e come nome. Io non sapevo pronunciarla bene quella parola; la zia scivolava su quel suono come un soffio. Era una parola che s'era portata via da una delle sue terre ignote; quel nome straniero era solo una parola dialettale e voleva dire cappuccino perché il fiore ha il becco che aveva il cappuccio dei frati quando i frati erano frati. Un nome, quelle terre dove lei aveva vissuto dovevano pure averlo. Non lo seppi mai. Gli zii erano apparizioni emergenti da uno sfondo di nebbia impenetrabile.

Le foglie dei capsen che diventavano d'argento vivo immerse nell'acqua, era un mio divertimento; giocavo col miracolo. Per la mia ignoranza esilarante dovetti andare a Torino per sapere due cose in una: che i capsen si chiamano nasturzi e che i nasturzi sono i capsen. Quando vedo vicino quel tale rosso e quel tale giallo che si amalgamano in quel fiore, vedo i capsen, vedo i nasturzi anche se sono solo macchia.

Alle finestre di conti e di marchesi non ci potevano essere vasi di fiori; i loro palazzi erano obbligati al sussiego e non c'è sussiego con la maggiorana alla finestra. Se dentro la fucsia ci fosse, non lo so. Il conte Nicolò Grimaldi, così solennemente scapolo, sicuramente non l'aveva.

La fucsia era un fiore che guardava per terra; non avrebbe mai potuto guardare in faccia né il cielo, né gli uomini, era come la zia: chiusa in se stessa, tirata giù dal suo peso; nonostante il peso la zia però non fletteva neppure le ginocchia.

Se la fucsia non fosse stata in un vaso e fuori dalla finestra, ma per terra, come stavo io, sarebbe stata sempre più alta di me, un alberello con tante campanelle pendule, ognuna con tanti batocchini con la testina d'oro; un fiocchetto di batocchini. La campanella era fatta di tanti petali paonazzi stretti tra di loro e sopra sepali bianchi e carnosi a spicchi, provenienti da un lungo e stretto calice. La campanella, una sottanina fatta di tanti teletti stretti uno contro l'altro, i batocchini tanti piedini con le scarpine dorate. Mentre nelle fucsie comuni sepali e petali erano di colore uguale, in quella della zia calice e sepali bianchi, petali rosso-viola. Tutto eccezionale, quello che aveva lei.

Ogni tanto lungo la vita ne ho chiesto. «No, mai viste così.» Non molto tempo fa, in una stretta viuzza di Arezzo, a una finestra, ne vidi una. Ero in automobile; feci appena in tempo a salutarla.

Le altre fucsie tutte d'un colore; calici, sepali e petali insieme facevano monsignore, quella della zia con quel bianco sopra e paonazzo sotto era fiore fatto d'ombra e di luce. Se vedessi me d'allora come vedo l'alberello disordinato della fucsia con quei fiori a goccia sotto il verde delle foglie, forse saprei qualcosa di me.

In un vaso grande come quello della lilla, del gelsomino, della fucsia, c'era anche la margherita con i suoi fiori bianchi attorno al bottone d'oro, che guardavano tutti il cielo. Quella è la più generosa tra le piante; dà fiori più che non abbia foglie per respirare, ma appunto perché è generosa non è apprezzata; desse meno sarebbe preziosa; invece è stupida.

Arrivò un vaso di tuberose (16), già bell'e fiorito; un profumo intenso che veniva fuori da una fiammella gialla nella gola del fiore; stette poco e sparve. Arrivò pure una grossa pianta di gardenie (17), stava in un vaso grande come quello della lilla, era tutta fiorita anche lei, ma quell'odore mi fu insopportabile; diventava puzzo e mi allontanava. Dicevano in paese che non si dovevano odorare i fiori da offrire alla Madonna; puri dovevano essere per darglieli. Se in casa ci fosse stata una Madonna a cui offrire fiori, io le avrei potuto offrire solo le gardenie, gli altri glieli avrei tutti deflorati.

Un giorno entrò in casa una pianta che non aveva né rami, né foglie; una pianta che pareva di carne verde e aveva un nome fantastico «philodendro» (18); era scritto «phi», ma si leggeva «fi»; non feci in tempo a guardarla, forse entrò e morì, feci in tempo solo ad afferrarne il nome. Poco dopo ne arrivò una che feci in tempo a guardare perché restò, non scomparve subito. Era un bastone di pasta verde che fioriva ogni non so quanti anni. Ma questa aveva già una protuberanza in cima da cui doveva scoppiare il fiore aspettato chissà da quanto tempo. Anch'io aspettai, aspettai, per giorni eterni. Ed ecco lassù, attaccato a quel suo tronco scanalato e carnoso dove invece di foglie c'erano gruppetti di spine, ecco lassù il fiore solo a tanti calici, tanti calici uno dentro l'altro che facevano un fiore solo; tolto l'azzurro, c'erano tutti i colori sfumati tra di loro come se uno colasse sull'altro; era stagliato, rigido, quasi carnoso, un fiore che sbocciava ogni tanti anni era già un fiore vecchio. Ogni tanti anni, poteva voler dire ogni cento anni. Non era una pianta nostrana, era esotica. M'era piaciuta quella parola e la ripetevo «è esotica». Quella pianta che mi estasiava per il suo essere esotica, per il suo fiore centenario venuto a sbocciare proprio in casa nostra, mi estasiava anche per il suo nome scritto su una tavoletta attaccata con fil di ferro alla pianta: Pelungatus philamentum (19). Me lo facevano ripetere questo nome per ridere della gravità con cui scandivo le due maccaroniche parole.

Ma dove se le procurava la zia queste piante? Io me le vedevo in casa, piante rare che nessuno aveva e non vidi mai di dove sorgessero. Se le avesse prese a Macerata me ne sarei accorta.

Per un po' di tempo ci fu una pianta grassa, non aveva tavoletta col nome, nessuno la chiamò. Era un ciuffo di spade verdi orlate di giallo (20). Stava sul pavimento col suo vaso, come stavo io sullo sgabello da piedi in casa della signora Rosina e delle Cervigni.

Per un periodo lungo ci fu anche la miseria, ma quella non stava fuori delle finestre, era sparsa per casa, pianta decorativa, non la vidi mai fiorita. I vasi erano semicoppe appuntite di coccio, sbalzate, smerlettate, traforate, applicate alle pareti o anche coppe intere pendenti dall'alto come lampadari. veramente pendevano solo davanti alle finestre, nell'apertura dei due festoni delle tende. dalle une e dalle altre traboccavano cascate di miseria. La forma delle foglie era uguale, il colore no. C'era la miseria verde (21) che non m'interessava affatto; non capivo perché la zia la tenesse; ma quell'altra no, era una miseria stupenda, sarebbe stata bene anche nel palazzo del conte Grimaldi. E chissà che non ci fosse. La facevano parere di metallo i colori tirati sulle foglie a pennellate separate (22) come le pitture della piccola basilica di Macerata dove distinguevo tutti i pezzetti di colori, ma se socchiudevo gli occhi la scena era tutta unita.. Per la miseria non occorreva socchiudere gli occhi, i colori stavano bene come stavano, fondamentale l'amaranto; su quesyo, striature verdi, rossicce, ramate; il colore del carciofo ricorda questa miseria. Probabilmente la miseria avrà infestato il paese perché la zia se ne disfece completamente.

[…]

Un po' più a lungo della miseria durò un'altra pianta ornamentale. Dai vasi si allargava un bosco di gigantesche foglie ovali a punta (23), percorse da tante nervature longitudinali; in mezzo quella grossa che pareva la prosecuzione del gambo della foglia. Un velo azzurrognolo sul verde di quelle enormi foglie di cui una poteva coprire la tavolozza di mio zio restandone fuori la punta. Avrei avuto il tempo di fare amicizia con quel bosco di foglie, ma non ce la feci. Scomparve e basta.

Mentre fu un'emozione mai sopita la stella alpina (24). Con tanto sorriso, con tanto riguardo lo zio la tirò fuori da un foglietto piegato in due. Lui la chiamava edelweiss. Una scoperta piuttosto sgradevole. Quel fiore con la forma di frutto di mare, ricoperto di peluria come certi schifosi insetti, col colore di nessun colore, perché neppure bianca era, mi disgustò. Poi quando sentivo di gente che attratta dal fascino di quel fiore, piombava nei precipizi per coglierlo, mi parvero persone destinate a cogliere la morte. Lasciato solo, in cima al precipizio, l'edelweiss poteva anche essere un fiore.

Se invece di tanti altri fiori, avessi conosciuto prima la violacciocca (25), tutta colorata, così semplicemente profumata nel suo grigiastro, disordinato cespuglio peloso, mi sarebbe bastata lei sola; con la violacciocca Pasqua è sempre vicina.


NOTE di Larkie:
(1) - Astraceli: Aster sp.
(2) - Lilla (non Lillà): Lippia citriodora o Cedrina, o Erba Luigia
(3) - Dittamo: Dictamnus albus o Frassinella
(4) - Bell'Amore: non identif. (forse Aquilegia sp.?, in ital. Amor Perfetto)
(5) - Dittamo turco: non identif.
(6) - Gerani: Pelargonium zonale
(7) - Gerani a edera: Pelargonium peltatum
(8) - Garofani: Dianthus sp.
(9) - Fucsie: Fuchsia magellanica
(10) - Amorini: non identif.
(11) - Gelsomini: Jasminum sp.
(12) - Pansé: Viola tricolor o Viola del Pensiero
(13) - Rosa di Gerico: pianta che conosco ma non identifico. Si conserva secca su un piattino o vassoio. Sta arricciata e chiusa su se stessa; mettendo acqua nel fondo del piattino si apre lentamente come se fosse ancora viva.
(14) - Lillà: Syringa sp.
(15) - Capsen: Tropaeolum majus o Nasturzio (in franc. Capucine; in dial. ferrarese Capusèn)
(16) - Tuberosa: Polianthes tuberosa
(17) - Gardenie: Gardenia jasminoides
(18) - Philodendro: forse si tratta di un errore di Dolores. Le 275 specie appartenenti al genere Philodendron sono tutte dotate di foglie e di rami. La memoria questa volta ha fatto cilecca.
(19) - Probabilmente deformazione maccheronica di un nome difficile. La terminazione -gatus potrebbe essere in realtà -cactus. Dalla descrizione la pianta assomiglia ad un Cereus jamacaru.
(20) - Spade verdi orlate di giallo. Forse Agave americana "Marginata"
(21) - Miseria verde: Tradescantia blossfeldiana?
(22) - Colori ... a pennellate separate: forse Zebrina pendula "Quadricolor", le cui foglie hanno strisce irregolari rosa, verde, crema e argento.
(23) - Foglie ovali a punta: forse Aspidistra elatior.
(23) - Stella alpina: Leontopodium alpinum
(24) - Violacciocca: Matthiola incana




Da: Dolores Prato - GIÙ LA PIAZZA NON C'È NESSUNO - (1.a edizione integrale a cura di Giorgio Zampa - Mondadori, 1997)

*      *      *




| Home | Curriculum | Appuntamenti | Consulenza | Archivio | Libro degli Ospiti | Banca del Seme | Link |

Speciali: Giardini Letterari

Scrivi a Larkie

Made with Macintosh


Copyright © 1999-2003 - Progetto e testi di Mario Cacciari

Bravenet.com