Speciali

Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Secolo XX
Italia

L'Autore - Giuseppe Tomasi, Duca di Palma e Principe di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957). Il suo capolavoro, Il Gattopardo, fu pubblicato solamente un anno e mezzo dopo la sua morte, dopo essere stato rifiutato da molti editori.
Fu appassionato studioso della letteratura francese dell’Ottocento e accanito lettore. Ma non partecipò al mondo dei letterati e dei critici militanti. Dopo il 1925, abbandonata la divisa di ufficiale con cui si era distinto nella Grande Guerra, si appartò senza partecipare alla vita del ventennio fascista, durante il quale a lungo soggiornò all’estero. Morì a Roma nel luglio del 1957.
Altre opere: alcuni racconti, schemi di alcune opere narrative incompiute, saggi di critica letteraria

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DA IL GATTOPARDO - 1958 (Ottava edizione UE Feltrinelli, 1963)

(Dalle note editoriali) ...al suo apparire fu subito riconosciuto come una delle massime opere letterarie del secolo scorso. Tradotto in tutto il mondo, letto avidamente da milioni di lettori, portato sullo schermo dal grande regista Luchino Visconti, adottato come testo di letteratura nelle scuole, Il Gattopardo mette in scena una famiglia dell’aristocrazia siciliana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi (dall’anno dell’impresa dei Mille di Garibaldi la storia si prolunga fino ai primordi del novecento), e fa centro quasi interamente attorno a un solo personaggio, il Principe Fabrizio Salina.
Lirico e critico insieme, il romanzo nulla concede all’intreccio e al romanzesco tanto cari a tutta la narrativa europea dell’ottocento. L’immagine della Sicilia che invece ci offre è un’immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica, politica e letteraria contemporanea.

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A PALERMO: Il giardino e il soldato morto (Capitolo I)

Preceduto da un Bendicò eccitatissimo discese la breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso come era questo fra tre mura e un lato della villa, la reclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale accentuato dai monticciuoli paralleli delimitanti i canaletti d’irrigazione e che sembravano tumuli di smilzi giganti. Sull’argilla rossiccia le piante crescevano in fitto disordine: i fiori spuntavano dove Dio voleva e le siepi di mortella sembravano poste lì più per impedire che per dirigere i passi. Nel fondo una Flora chiazzata di lichene giallo-nero esibiva rassegnata i suoi vezzi più che secolari; dai lati due panche sostenevano cuscini trapunti ravvoltolati, anch’essi di marmo grigio; ed in un angolo l’oro di un albero di gaggìa intrometteva la propria allegria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensazione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia.

Ma il giardino, costretto e macerato fra quelle barriere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente putridi, come i liquami aromatici distillati dalle reliquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il loro odore pepato a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche il profumo della menta misto a quello infantile della gaggìa ed a quello confetturiero della mortella; e da oltre il muro l’agrumeto faceva straripare il sentore di alcova delle prime zagare.

Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa: ma l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte, benché non delicato. Le rose Paul Neyron, le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi, erano degenerate; eccitate prima e rinfrollite poi dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un aroma denso quasi turpe, che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera. Bendicò, cui venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò a cercare sensazioni più salubri fra il concime e certe lucertoluzze morte.

Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni di idee. “Adesso qui c’è buon odore; ma un mese fa…”

Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del quinto Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli, se ne era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto di formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a coprirne il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde blu del cappottone: sputando continuamente, per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. Il tutto con preoccupante perizia. “Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte,” diceva. Ed era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta.

Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi portato via (e, sì, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta fuori di nuovo), un De Profundis per l’anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale, e non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa essendosi rivelata soddisfatta.

Il Principe andò a grattar via un po’ di lichene dai piedi della Flora e si mise a passeggiare su e giù: il sole basso proiettava immane l’ombra sua sulle aiuole funeree.

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A DONNAFUGATA: La Fontana di Anfitrite (Capitolo II)

Dopo un’ora si svegliò rinfrescato e discese in giardino. Il sole già calava e i suoi raggi, smessa la prepotenza, illuminavano di luce cortese le araucarie, i pini, i robusti lecci che facevano la gloria del posto. Da in fondo al viale principale che scendeva lento fra alte siepi di alloro incornicianti anonimi busti di dee senza naso, si udiva la dolce pioggia degli zampilli che ricadevano nella fontana di Anfitrite. Vi si diresse, svelto, avido di rivedere. Soffiate via dalle conche dei Tritoni, dalle conchiglie delle Naiadi, dalle narici dei mostri marini, le acque erompevano in filamenti sottili, picchiettavano con pungente brusio la superficie verdastra del bacino, suscitavano rimbalzi, bolle, spume, ondulazioni, fremiti, gorghi ridenti; dall’intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore. Su di un isolotto al centro del bacino rotondo, modellato da uno scalpello inesperto ma sensuale, un Nettuno spiccio e sorridente abbrancava un’Anfitrite vogliosa: l’ombelico di lei inumidito dagli spruzzi brillava al sole, nido, fra poco, di baci nascosti nell’ombria subacquea. Don Fabrizio si fermò, guardò, ricordò, rimpianse. Rimase a lungo.

“Zione, vieni a guardare le pesche forestiere. Sono venute benissimo. E lascia stare queste indecenze che non sono fatte per uomini della tua età.”

L’affettuosa malizia della voce di Tancredi lo distolse dall’intorpidimento voluttuoso. Non lo aveva inteso venire: era come un gatto. Per la prima volta gli sembrò che un senso di rancore lo pungesse alla vista del ragazzo: quel bellimbusto col vitino smilzo sotto l’abito bleu scuro era stato la causa che lui avesse tanto acerbamente pensato alla morte due ore fa. Poi si rese conto che rancore non era: soltanto un travestimento del timore; aveva paura che gli parlasse di Concetta. Ma l’abbordo, il tono del nipote, non era quello di chi si prepari a far confidenze amorose a un uomo come lui. Si calmò: l’occhio del nipote lo guardava con l’affetto ironico che la gioventù accorda alle persone anziane. “Possono permettersi di fare un po’ i gentili con noi, tanto sono sicuri che il giorno dopo dei nostri funerali saranno liberi.” Andò con Tancredi a guardare le “pesche forestiere.” L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente: i frutti erano pochi, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutati, fragranti; giallognoli, con due sfumature rosee sulle guancie, sembravano testoline di cinesine pudiche. Il Principe le palpò con la delicatezza famosa dei polpastrelli carnosi. “Mi sembra che siano proprio mature. Peccato che siano troppo poche per servirle stasera. Ma domani le faremo cogliere e vedremo come sono.” “Vedi! così mi piaci, zio; così, nella parte dell’agricola pius che apprezza e pregusta i frutti del proprio lavoro; e non come ti ho trovato poc’anzi mentre contemplavi nudità scandalose.” “Eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.” “Certo, ma da amori legali, promossi da te, padrone, e da Nino il giardiniere, notaio. Da amori meditati, fruttuosi. In quanto a quelli lì,” disse, e accennava alla fontana della quale si percepiva il fremito al dilà di un sipario di lecci, “credi davvero che siano passati dinanzi al parroco?” L’abbrivo della conversazione si faceva pericoloso, e don Fabrizio si affrettò a cambiar rotta. Risalendo verso casa, Tancredi raccontò quanto aveva appreso dalla cronaca galante di Donnafugata: Menica, la figlia di campiere Saverio, si era lasciata ingravidare dal fidanzato; il matrimonio adesso si doveva compiere in fretta. Calicchio poi era sfuggito per un pelo alla fucilata di un marito scontento. “Ma come si fa a sapere già queste cose?” “Le so, zione, le so. A me raccontano tutto; sanno che io compatisco.”

Giunti in cima alla scala, che con svolte molli e lunghe soste di pianerottoli saliva dal giardino al palazzo, videro l’orizzonte serale al di là degli alberi: dalla parte del mare immani nuvoloni color d’inchiostro scalavano il cielo. Forse la collera di Dio si era saziata, e la maledizione annuale della Sicilia aveva avuto termine? In quel momento quei nuvoloni carichi di sollievo erano guardati da migliaia di altri occhi, avvertiti nel grembo della terra da miliardi di semi. “Speriamo che l’estate sia finita, che venga finalmente la pioggia,” disse don Fabrizio; e con queste parole l’altero nobiluomo, cui, personalmente, le pioggie avrebbero soltanto recato fastidio, si rivelava fratello dei suoi rozzi villani.

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